22 settembre 2016

SARBJIT



Dimentichiamo per un attimo la vicenda di cronaca e gli eventi. Lasciamo sospeso il difficile convivere di due nazioni vicine divise da una palese inimicizia e un muro di filo spinato. Sarbjit è un titolo ma soprattutto un nome,  parola che velocemente riporta alla mente una storia drammatica e ancora non del tutto chiara. Un film che racconta di un uomo e di una condanna, del dolore dei suoi familiari, delle lacrime che non conoscono né lingue né frontiere, della disperata ricerca di risposte. Pur collegandosi ad un'identità specifica potrebbe parlare della vita e la fine di qualcun altro, del tormento di chi resta a casa ad aspettare un ritorno che non avverrà mai, del silenzio di chi è stato abbandonato in situazioni disumane in altri momenti della storia e in altri angoli del pianeta. La sofferenza è una maledizione che si ripete ogni giorno.


TRAMA 
Sarbjit (Randeep Hooda) vive con la sua famiglia in un villaggio del Punjab al confine con il Pakistan. Dopo aver bevuto un po' troppo attraversa la frontiera senza rendersene conto e viene identificato come una spia e il responsabile di due attacchi terroristici. La sorella Dalbir (Aishwarya Rai) inizierà a combattere per la liberazione raccogliendo prove della sua vera identità.


Omung Kumar, autore di Mary Kom, si cimenta nuovamente in una biografia e tira fuori dagli archivi un caso scottante sul quale non si è fatto ancora luce. Il punto di vista scelto dal regista è quello della sorella di Sarbjit, Dalbir Kaur, che si è battuta fino all'ultimo per provare l'innocenza del fratello e lo scambio di identità che l'uomo avrebbe pagato con la vita. Dei maltrattamenti e delle torture in carcere parlava anche Visaranai, il film tamil di Vetrimaraan in concorso lo scorso anno al Festival di Venezia (e selezionato per gli Oscar 2016... all the best!). In quel caso erano le mura di una stazione di polizia del Tamil Nadu, ad assorbire le grida disperate di quattro innocenti presi dalla strada con lo scopo di chiudere in fretta un caso. In Sarbjit lo stesso topic diventa più difficile da elaborare perché si va a mettere sale su una ferita sempre aperta, le relazioni difficili tra India e Pakistan, e il quesito sull'innocenza di un uomo che (anche se che probabile) non è stata del tutto dimostrata. 

Dell'intero film difficilmente dimenticherò la lenta preparazione della scena in cui il protagonista incontra la famiglia dopo anni di reclusione. Il regista traccia lentamente un cerchio con le dita che si stringe sempre più fino a immobilizzare come l'abbraccio di un boa. Ci mostra cosa avviene in un ambiente e poi nell'altro, prima con delicatezza poi con vigore, un'estenuante rimbalzare di emozioni terribili. La tensione cresce attraverso piccoli gesti, dettagli e oggetti. La sequenza preparatoria è girata con maestria e nonostante i temi siano strazianti (inevitabilmente) il livello del film si eleva anche da un punto di vista stilistico. 

Proiettato per la prima volta al Festival di Cannes una volta uscito nelle sale in India ha ottenuto un riscontro tiepido ed è stato criticato principalmente per eccessi di melodramma. Dato il tema non è affatto semplice raccontare con fredda lucidità e rigore. Il regista pare in continuo dilemma e ad un certo punto inizia ad essere percepibile:  dire troppo o troppo poco? Calcare alcuni aspetti o altri? Come evitare di stereotipare i buoni e i cattivi? Lasciare o meno un dubbio su come si siano svolti gli eventi? Qualche passo meno traballante l'avrebbe reso un film migliore. 

Ma Sarbjit ha anche portato per la prima volta sullo schermo Aishwarya Rai e Randeep Hooda, lei la diva in fase di ritorno e di sperimentazione, lui l'inarrestabile scalatore del successo, l'attore che zitto zitto e piano piano sta diventando uno dei miracoli degli ultimi anni.  Due protagonisti e due interpretazioni: una buona e una stratosferica. 
Aishwarya Rai è una persona forte, si vede e si sente. Il personaggio di Dalbir non le appartiene ma la sua vitalità di donna, prima che di attrice, la spinge nel modo giusto e riesce a fare un lavoro più che degno. Unico appunto, l'eleganza di Aishwarya è difficile da sedare, una caratteristica ultraterrena che nemmeno il miglior regista può mettere in ombra, a poco servono i costumi, il make up e anche uno studiato linguaggio del corpo. E questa era la buona.
Ma passiamo alla stratosferica.  Randeep Hooda ha avuto un coraggio titanico a firmare questo film e portarlo avanti con estrema professionalità. Un tema spinoso, un ruolo difficile da interpretare che non si presta né ad incontrare la popolarità né i grandi numeri del botteghino. Contrasti, opinioni discordanti, dibattiti. Ma soprattutto una prova non facile da un punto di vista fisico e psicologico. E lui regge tutto sulle spalle come Atlante. Nel ritrarre con estrema dedizione un uomo che perde ogni giorno un pezzo di se stesso, e della sua dignità, ci mostra ciò che è in grado di fare. Praticamente tutto.

Non è facile guardare un film così. Perchè poi come è possibile "guardare" così tanto dolore e restare fermi, pensare ad altro o ricordarsi che in fondo è solo un prodotto cinematografico? Non si può fuggire dalla realtà. Ciò che Randeep Hooda ha magistralmente finto per il grande schermo è stata l'esperienza reale di qualcuno, che si chiami Sarbjit o con mille altri nomi, che sia colpevole, innocente, spia o preso per caso, è davvero troppo. La violenza fa male e porta altro male, sempre. Non è mai giustificata qualsiasi sia la radice, la causa e la mano che la infligge. 


 Il mio giudizio sul film ***  3/5
 (***** 5/5 a Randeep Hooda per la miglior performance della sua carriera)


 ANNO 2016

 REGISTA : Omung Kumar 

CAST: 
Randeep Hooda ........... Sarbjit 
Aishwarya Rai ........... Dalbir 
Richa Chadda .......... Sukhpreet
Darshan Kumar .......... Awais Sheikh

COLONNA SONORA : Jeet Ganguly / Amaal Mallik /Tanish Bagchi / Shail - Pritesh/ Shashi Shivam